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FELICITA
dal 27 Novembre
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Come fratelli
dal 16 Ottobre
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Circulus
dal 29 Maggio
al 1 Giugno
 
(Cinque) PICCOLI MOSTRI
dal 22 Maggio
al 27 Maggio
 
CASA CHIUSA - L'INCOGNITA MAH
dal 18 Maggio
al 20 Maggio
 
MAI PIÙ-ME
dal 13 Aprile
al 28 Aprile
 
Pensiero Debole
dal 23 Marzo
al 24 Marzo
 
A cuor sincero
dal 13 Marzo
al 18 Marzo
 
Cuisine et Dépendances
dal 1 Marzo
al 11 Marzo
 
10
dal 14 Febbraio
al 26 Febbraio
 
La catena del danno
Foto - FELICITA   FELICITA
Colloqui e colquor

dal 5 Dicembre
al 7 Dicembre

Ore 21:00
Ingresso gratuito

O u v e r t u r e
Che che ne dicesse Stendhal, ch’egli avesse vinto, oltre a un nome imperituro e al genio, soprattutto la felicità, il cui Opus afferma che no, Rossini non era felice. E lo stesso vale per Gozzano, che non fu un contento della vita: una melancolia interiore (la depressione di Gioacchino), di intimo insoddisfacimento, lo disanima («non crede la troppo umana favola d’un Dio»). Ma entrambi, non morirono al conscio: zampillarono d’arguzie leggere, componendo motivi, ritornelli che s'odono, d’ascolto vacui (noi) ci cullano.
La rime di Gozzano, non meno delle note di Rossini (con i suoi rubati a sé stesso!), si compiacciono di queste ripetizioni,  in cui (scrive Montale) cozzano l'aulico col prosastico facendo scintille, tutto all’insegna dell’ironia, del buffo, che prende distanza dalla dissoluzione vivente tra dissoluzione di cose inanimate.
Deluso il desio di felicità dall’esistenza malata, il vagheggiamento è l’arte di chi – avvocato o bon vivant – si rifugia – che sia Vill’Amarena o un tacchino – lungi dal genere umano, quella folla bruta e indifferenziata dominata solo dal proprio interesse.
Abbandonati gli studi giuridici nel
1908 Guido Gozzano si dedica completamente alla poesia e tra il 1907 e il 1910 compone il suo più importante libro, I colloqui, pubblicati nel 1911, le cui liriche, in numero di XXV, sono divise in tre sezioni: Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce. È in quest’arco di vita che s’inasprisce nel poeta la consapevolezza dell'incurabilità della tisi, che lo condurrà a una morte prematura.
I colloqui più che un’antologia sono un poema i cui singoli componimenti riflettono la parabola esistenziale del protagonista, autoritratto e, nello stesso tempo, alter ego del poeta stesso: «mio fratello muto / spettro / ideale di me Non vissi. Muto sulle mute carte / ritrassi lui, meravigliando spesso. / Non vivo. Solo, gelido, in disparte, /sorrido e guardo vivere me stesso».
Al giovanile errore (ov’è l’amore) e a Il Reduce (ov’è il distacco), ho scelto Alle Soglie (ov’è la morte), in cui il poeta è reduce ... [in “In casa del sopravvissuto” contenuta in Il reduce, scrive “reduce dall’Amore e dalla Morte gli hanno mentito le due cose belle”] ancora solo dall’Amore. In «Alle soglie», dunque, prevale il tema della morte. La sua rappresentazione sembra strettamente legata all'amara coscienza che la letteratura sia solo emozionalità en passant, il vano tentativo di curare la fragilità d’una vita, già pericolosamente simile alla morte stessa.
Ebbene, da una semplice lettura ho detratto una mise en space, che concerta due liriche di Alle soglie, “Signorina Felicita ovvero la felicità”, ch’è piuttosto una novella patetica in versi, e “Cocotte”.                                                                                        Un’operetta lirica, la mia, che considero – con licenza rossiniana – un «Péché de vieillesse», una semplice senile debolezza. Senilità di venticinquenne, sebbene. Ma è proprio il Nostro poeta de quo che nei “I Colloqui” (lirica) di Il giovenile errore scrive: “Venticinqu’anni!... sono vecchio, sono vecchio! Passò la giovinezza prima, il dono mi lasciò dell’abbandono”.
Colloqui e colquor, dunque. Sensoriale è il gioco di consonanza: gli occhi, oqui, e il cuor, quor (quore è forma arcaica). Ché la vista e il palpito (battito d’un tempo musicale) sono i due strumenti attraverso cui eseguo le liriche.
Gozzano: il più post-decadente dei poeti crepuscolari; dapprima esteta elettissimo, dappoi – naturalizzatosi d’intimismo pascoliano – “scialba persona biondiccia” i cui valori son una “democrazia estetica”, i propri “solini”e le sue “cravatte provinciali”, e soprattutto, "le buone cose di pessimo gusto", il dandismo dannunziano – da cui era partito – trasformatosi nel "ciarpame reietto, così caro alla mia Musa".       E Rossini: quello che devastato da atroci dolori al retto, all’ingenua domanda “Come si sente, Maestro?” d’un medico, rispose: “Apra la finestra e mi butti in giardino!” E da quel giardino comincia la pièce: il giardinetto contiguo di “Cocotte” (trasfigurazione di Olympe Pélissier), che diviene un’eco della Signorina Felicita… lei promette che tornerà, lui sa che non tornerà perché gli resta poco da vivere – ma così vede le cose Felicita e così ama figurarsele l'avvocato che però, in fondo, sa che non tornerà anche per altri motivi… alla mente mi salta la nota del contralto Marietta Alboni sulla musica di Rossini: L'Arte del canto se ne va e ritornerà soltanto con l'unica autentica Musica dell'avvenire. L’avvocato è malato… Della malattia morale di chi vuole e disvuole, ma in fondo non sa desiderare realmente nulla, di chi non sa vivere autenticamente, né in fondo lo vuole davvero, compiaciuto com'è della propria ambigua condizione, di chi al sentimento, all’ideale fa contrappunto col cinismo. C’è estetismo… come nelle variazioni favorite da Rossini: niente gestalt, quel che resta del tutto sono parti-ture: oqui e quor per la musica della poesia.
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Foto - Come fratelli   Come fratelli
Storie di ordinaria mafìa

dal 27 Novembre
al 2 Dicembre

Ore 21:00
Ingresso € 10

(nota di regia)
<Ho pensato a costruire la messa in scena di “Come fratelli” seguendo l’istinto del teatro, il suo gioco manifesto ed occulto che realizza tessiture a partire da semplici spifferi. Non ho mai condiviso l’idea che la mafia fosse soltanto una specie di “gramigna campestre”: forse come gramigna campestre essa è nata, ma la sua dilatazione contemporanea la rende appieno, semmai, un mostro dal colletto inamidato. In campagna, nella periferia, dove il senso della rappresentazione è ancor più scandaloso, resta il sapore mieloso della mafia, quell’aura che i telefilm contemporanei non smettono di consacrare, quell’insopportabile “moviola” che rallenta le pallottole, gli accasciamenti, le urla, il botto del tritolo. Ma è proprio quell’aura emulativa che mi ha sorpreso nella sua semplicità; la banalità del male è tutta racchiusa in questo gioco fascinoso, per i giovanotti senza lavoro e senza fondamenti etici, che ti toglie dall’incerto dei tempi per consacrarli “’ntisi”. Da lì la deriva l’infame mattanza delle parole siciliane: “onore”, “rispetto” che sono espropriate alla loro connotazione semantica, per diventare “ferite”. La mafia ha rubato alla Sicilia le sue parole tipiche, ammorbandole. Le ha rubato la voglia di correre, e l’ha resa più lenta e più pesante, un carrozzone. Le ha lasciato il sole, l’amore, l’idioma; però a patto che si resti nel cerchio del sole, dell’amore, dell’idioma, come fanno i filmetti, appunto. “Come fratelli” aveva l’inusuale pregio di parlare come i ragazzini parlano, di biciclette, di femmine bone, di giri sulle jeep, senza svuotare nei rallenty la banalità mafiosa, ma anzi rendendola icastica, potente. Insomma, parlava del fascino del male, a partire da quella banalità assoluta che il male, purtroppo, ha in sé ( sarà per questo che non riesci a fartene anticorpi: il male è così banale da sfondare dentro). “Come fratelli” non parla di una mafia politica, di una mafia territoriale, ma disegna una storia a partire da due “carusi” che, per opposte vicende, di mafia si trovano a vivere e morire. La mafia “nica” del fascino adolescenziale, quella mi è piaciuto assai rappresentare; la mafia nicaredda che ti fotte senza sembrare un cancro, ma solo un colpo di sole; la mafia banale, che t’ammazza mentre credi di aver ritrovato un fratello>
Giacomo Bonagiuso

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Foto - Circulus    Circulus
de comoedia

dal 16 Ottobre
al 28 Ottobre

Ore 21:00
Ingresso € 15

Circulus  si sarebbe potuto anche chiamare Il Gioco di Eros e Thanatos o De Justificatio Amoris o in molti altri modi… 

Ma la concettosità  del titolo avrebbe appesantito quella che è in sintesi una grottesca danza dell’accoppiamento senza inizio e senza fine perchè circolarmente appunto, coinvolge i personaggi  in una giostra di corteggiamenti mirati tutti ad un unico scopo  comune.

Quindi Circulus, sottotitolo de comoedia,  leggera “messa in farsa” del congiungimento sessuale in cui soli, palpitano,  gli istinti primordiali, che si vestono al caso di abiti e parole per giustificazioni teologiche o sociali o  letterari  aneliti romantici o più semplicemente e banalmente Forma .

Quanta fatica!

Ad un lettore attento l’ispirazione sarà nota… agli altri la lasceremo il gusto di scoprirla.

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Foto - (Cinque) PICCOLI MOSTRI   (Cinque) PICCOLI MOSTRI
Sei personaggi, grottescamente dipinti nella loro mostruosità morale.
Sono solo il frutto della mente malata del nostro povero autore ?


dal 29 Maggio
al 1 Giugno

Ore 21:00
Ingresso € 12

Un quartiere di una città con i suoi abitanti. Un insieme coatto, circoscritto dai confini fisici di strade e palazzi, che racchiude i personaggi e la loro porzione di mondo.
Realtà costrette a incontrarsi e scontrarsi con ferocia. Un insieme di certezze assolute e incontrovertibili.
I personaggi raccontano, si svelano e rivelano tutte le deformità morali celate dietro la personale maschera grottesca.
Irreali fino a essere amaramente e mostruosamente reali.
(Cinque) Piccoli Mostri prende ispirazione dal film I mostri di Dino Risi, in cui ci veniva proposto un mosaico tutt’altro che gratificante dell’Italia degli anni sessanta, raccontando vizi e contraddizioni dell’italiano mostro civile e sociale. Fabio d’Avino concentra la sua attenzione sull’interiorità dei piccoli mostri, inseriti nell’Italia di oggi, mirando a evidenziare i limiti dell'essere umano.
L'autore utilizza la formula del grottesco per raffigurare in chiave ironica e divertente e, soprattutto, in modo dissacrante, ma veritiero, i limiti della società moderna.
La panoramica che ne viene fuori è disarmante: traditori, cinici, razzisti e privi del benché minimo scrupolo, questi personaggi, le cui storie si intrecciano l’una con l’altra, dichiareranno la loro vera natura in un crescendo di pathos dando a tutti, ma proprio tutti, spunti per riflettere o magari per riconoscersi.

REGIA: FABIO D'AVINO
ATTORI: Dario de Francesco, Gloria Di Maria, Alla Krasovitzkaya, Giorgia Piracci, Emilse Porven, Antonietta Purificato, Silvia Tagliavento
MUSICHE: Erik Tagliavento
LUCI e FONICA: Raffaele Piracci

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Foto - CASA CHIUSA - L'INCOGNITA MAH   CASA CHIUSA - L'INCOGNITA MAH
Due atti unici su chi non è in scena. Due pieces sull'identità di un terzo assente che viene svelato solo alla fine

dal 22 Maggio
al 27 Maggio

Ore 21:00
Ingresso € 13

CASA CHIUSA
DI DIEGO DE SILVA
In una ''casa chiusa'', teatro di non tanto chiusi libertinaggi, due esseri umani si incontrano e si scontrano. Dopo l’incontro amoroso, sia pure a pagamento, in una pigra atmosfera di sesso non del tutto soddisfatto, i due, parlando, si inoltrano in altri territori e su altri terreni. Tra sfottò, volgarità, sguaiate romanticherie ed effusioni approssimative, la natura delle loro anime si svela in modo tragicomico. I significati della comune morale vengono
ribaltati. E’ più “giusto” chi paga o chi viene pagato? Chi compra, o chi vende?
Di vendita si tratta, infine, anzi di svendita. A che prezzo, però? Si ride e si è avvisati, mentre il terzo personaggio, osserva. Non del tutto ignaro.

L’INCOGNITA MAH
DI VALERIA PARRELLA

Una maga, drag partenopea, è magistralmente ''regina'' nell’ ''arte di arrangiarsi'' tipicamente mediterranea. Si arrangia vendendo sogni e altre carabattole psico-culturalmistiche, in una televisione non tanto “tele” in quanto non tanto lontano va la sua emittenza. Abbastanza, però, da raggiungere un bonario personaggio, tanto buono quanto ''fesso''. Infatti, in un clima surreale, colorato, scanzonato e un po’ sguaiato, si coglie, infine, il senso di un vecchio proverbio popolare napoletano che recita: ''chi è fesse se sta a’ casa''. Si ride e si è avvisati, all’ombra di un terzo personaggio incognito.
Deus ex machina.
 

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Foto - MAI PIÙ-ME   MAI PIÙ-ME
Lettre morte di un corvo che non ha più di una scrivania o della donna su cui si scrive.

dal 18 Maggio
al 20 Maggio

Ore 21:00
Ingresso € 12

“MAI PIÙ-ME. Lettre morte di un corvo che non ha più di una scrivania o della donna su cui si scrive” è una traduzione scenica della lirica “Il Corvo” di Edgar Poe ad opera di Riccardio Allan Russo.
 (E da questi non solo), accludo tra parentesi. La riscrittura scenica originale, simile ad un encausto che rovesciato prenda vita propria e sì inondi la terga distesa senza scampo, ha travolto altre opere di Poe – esattamente un racconto (Eleonora) e sei allotrie poesie, cui una è stata concertata in forma di canzone ad uso pre-ludico del ludo teatrico –, un adattamento del capitolo VII (A Mad Tea Party) di “Alice's Adventures in Wonderland” e del capitolo LVII di “Barnaby Rudge ossia il morto che attira” di Charles Dickens.
“Il Corvo” è una bestia scenica. A partire dalle ruote e i rocchetti, le attrezzature per i cambi di scena, dalle scale a pioli e le botole, le penne di gallo, il belletto rosso e i nei che, in novantanove casi su cento, formano l'armamentario dell'histrio letterario (videlicet La filosofia della composizione, il saggio di Poe de The Raven) non soltanto, ma altresì quello teatrale.
Genesi del titolo e sottotitolo:
Mai più, “Nevermore”, è l'epifora (ripetizione variata) dell'uccello al fin d'ogni strofa; le piume son la verga dell'uccello che soggioga il soggetto al mero impulso grafico; più-me è basta al soggetto soggiogato.
Lettre morte (non ho omesso una “e”; è francese. Il francese è francese!) è lettera morta sia;
di un corvo è io morto donna […]; che non ha più di una scrivania, che non assomiglia più a quanto è scritto (è il riddle che il cappellaio matto pone ad Alice “Why a Raven is like a writing desk?”... Risposta: perché Poe l'ha scritto!); o della donna su cui si scrive, che non assomiglia più alla donna amata che si vuole essere, all'amata donna cui si vuole assomigliare, sulla quale, non assomigliando neanche un po', si scrive da sempre...
Mi spiego? Tentati d'averla (possederla) e non potendo averla (anche avendola), si tenta d'esserla. Fallito d'esserla, non resta che scriverne (o scriverle). Ma questo dolore – della consolazione grafica – non si sopporta davvero più.
Nella XVesima stanza di Il Corvo compare la parola Gilead (“Is there – there balm in Gilead?”), Galaad. La Galaad a cui Poe si riferisce è la catena montuosa al di là del Giordano tra la Palestina e il deserto arabico, famosa per ricchezza di aromi. D'invece io, dando altera corda all'immaginario, ho ridotto quel Galaad in Galaad, uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda di Re Artù, noto per la sua nobiltà e purezza, che assieme a Parsifal e Bors, trovò il Graal. L'equazione (secondo me) è immediata: un cavaliere del medioevo = un gentiluomo del Sud (Poe). Romanticamente, il Graal è s-oggetivato. C'è un balsamo in me? – è la domanda. C'è Vita (Classica) in me?
L'io di Il Corvo è quello di un umanista. Un umanesimo che inizia alla fine del medioevo...
Il simbolismo: il corvo nero – il romantico come frammento inconscio o pezzo di notte – si appollaia sul busto bianco di Pallade –  Atena, la dea della saggezza, ergo il mondo classico scomparso oggi solo in sprazzi di luce diurna. E nella mia traduzione, quel busto s'anima dello spirito di Lenore (il cui sottotesto ho tessuto da l'Eleonora del racconto), o la Bellezza perduta...
In MAI PIÙ-ME, come nel Corvo, l'elemento sonoro la fa da padrone. L'abbandono alla parola, parola che, ancorché vettore di significato, è musica, timbro. Il ritmo trocaico e il metro ottametro acatalettico alternato con eptametro catalettico ripetuto nel refrain del V verso e terminante con tetrametro catalettico, non essendo l'italiano inglese, mi hanno favorito un uso morfosintattico dell'enjambement, a guisa di sciarada enigmistica.
È un atto (unico) d'amore il mio per il Vate di Boston, la cui lignea piuma (bisogna esser secchi, morenti quasi a dire, per ardere), posandosi sul fuoco sacro, ha innalzato scintille di vita, una vita di cui ha illuminato (messo in risalto) l'eco più profonda, la mortalità, (in modo volente o nolente) elusa dall'incessante mise en scene dell'umano vivere. Poe, nel Corvo più che mai, incarta (incarna) il romanticismo – romanticismo neoclassico. Non secondo la definizione di Chénier, cioè di una stracca espressione di “nuove” voglie in forme antiche, bensì nel controcanto di un nostalgico, per questo romantico, rivolto all'antichità classica, di cui evoca, rimpiangente (ché ricreare compiutamente non gli è dato, solo rimembrare), la purezza formale e l'ideale armonico fra uomo e mondo; mondo ormai cambiato, senza rimedio, cambiato.
Sic et simpliciter, il lampante conflitto fra Eros e Thanatos che pervade la lirica e pertanto la pièce che ne ho tratto, è un classico romantico. Poe, genio delle perversità, oltraggia il sensuale tra uomo e donna. Rende la figura femminile, figura vera e propria per antonomasia, incorporea; ne stilizza l'esteriore come un interno (quello della stanza), che in quanto dato all'uomo tale non è, ma esterno (fuor della finestra, ove si dibatte in fortunale la natura negata, allegoria di quella autonegatasi dall'amante tormentato).
Quando il materico, specialmente il sessuale, spinge per imporsi, Poe lo devia verso uno sbocco perverso. Un destino-bestia che bussa alla... finestra... tomba...      La tomba è il luogo, anzi, il logos, il discorso sull'amore – del poeta il più ardente. In Il Corvo c'è tutto Poe, Poe il cui Eros si risolve in Thanatos, la morte sostituisce l'amore, e il canto (lirico) diviene l'amore stesso: il melologo per colei che se ne andò, il “doloroso e duraturo ricordo”.
Parafrasando Gravina: quando la musica ci muove alle lacrime, senza motivo all'apparenza, il pianto nostro non è ecceduto piacere ma rammarico ecceduto, ché siamo al limitar delle estasi supreme, in quanto mortali negateci, di cui solo la musica ci concede la visione, seppur fugace e indefinita.
La musica prima della morte... del mai più... ma la morte nel mio Corvo è la vita che continua a dispetto della Bellezza... all'epilogo definitivo segue un contro-epilogo... in odor di commedia... odor di santità... Santo Graal!

 

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Foto - Pensiero Debole   Pensiero Debole


dal 13 Aprile
al 28 Aprile

Ore 21:00
Ingresso € 12

Ideato da: Anna Caragnano
Regia: Claudia E. Scarpa
Interpreti: Giada Baiamonte e Valentina Cretella
Scenografia: Jennifer Venuti
Musiche: Tre tipi molto diversi ( Paolo Micioni, Anna Caragnano, Matthias Cordsen)
Costumi: Rosario Gualtieri

Bologna.
Estate.
Stazione deserta.
Due donne si troveranno a condividere lo stesso inaspettato destino. Una lunga attesa che le porterà a confrontarsi su debolezze e ricordi, idee, ideali e progetti, fino a quando il loro futuro verrà drammaticamente dirottato. Le due protagoniste saranno testimoni di un evento sconvolgente che cambierà inesorabilmente il corso della storia. In una centrifuga di suoni e immagini, “Il Pensiero Debole” intreccerà realtà e surrealtà, storia documentata e immaginazione e attraverso la storie di due donne che esploreranno inconsapevolmente la natura debole dell’uomo e del pensiero, sposterà un po’ più in là la linea sottile che separa la leggerezza dalla semplificazione e guiderà lo spettatore in un viaggio interiore che non risparmierà sorrisi, commozione e rabbia perché la storia non può essere riscritta ma indubbiamente può essere raccontata ancora e ancora e ancora.
 

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Foto - A cuor sincero   A cuor sincero
Due voci, una parola: Poesia

dal 23 Marzo
al 24 Marzo

Ore 21:00
Ingresso € 12

EMANUELE D’AGAPITI - il Poeta
ELISABETTA FORTI -la Taranta
ANTONIO FUSARO - il Sud
REGIA: ANTONIO FUSARO
 
 
La compagnia “Attenti a quei due” lavora al progetto teatralpoetico dal titolo:” A CUOR SINCERO”  SPETTACOLO TRATTO DAL NUOVO LIBRO DI EMANUELE D’AGAPITI.
Dai testi poetici e in prosa di questo libro è stato tratto uno spettacolo di circa un’ora e trenta..
DUE VOCI, UNA PAROLA: POESIA.
I testi trattano di Minoranze, guerre, sogni calpestati, dittature presenti e una lotta per la crescita o
nuova rinascita del pensiero, lontano dall’imperante vita da disumani e lontani dalla triade imperante del produci, consuma, crepa.
“ Costruire rifugi contro l’inclemenza dei tempi” e noi non diamo delle soluzioni;
   noi diamo una via d’accesso.
Lo spettacolo si articola in un unico atto dove le due voci, si alternano nella recitazione.     Momenti di danza popolare ed arcaici movimenti di cooperazioni di popoli e minoranze, orchestrano all’unisono, insieme alla forza della parola e all’espressione poetica,  la volontà profonda di dar voce a chi non ha la forza di esprimere il proprio pensiero e a tutti coloro a cui è stata tolta la voce.
All’interno e come respiro ampio e profondo una colonna sonora che spazia sul Mar Mediterraneo fino alla terra della Mongolia. Eugenio Bennato, Ambrogio Sparagna, musica Celtica e tradizione popolare Mongola per l’unica nostra bandiera: I popoli e l’anima.
Costumi Arabi, tradizioni Orientali, candele e vocalizzi Mongoli, la  parola, la poesia, la loro sonorità, che come una danza sufi  esprime un eco di mantra per salvare i popoli calpestati dalla merce di scambio e dall’oltraggio dittatore, che impera da secoli e secoli.
La vuota scatola del palcoscenico, ha come elementi scenografici, e co-protagonisti
la silenziosa presenza di manichini sartoriali.
In questo vuoto rarefatto, la luce di una candela fa la sua irruzione come possibile risveglio dall’incoscienza. Prima che i tempi dell’incostanza e della corruzione  offuschino lo splendore della sua stessa luce.
Vorremmo che i manichini dietro le spalle degli attori in scena potessero anche per un solo  attimo rompere quell’utopia che ci portiamo dentro come una speranza già da troppo tempo morta.
Parlare con la loro verità.
Nella mistura fra  tradizione superstizione e fede,  esplode la taranta come simbolo di liberazione  del popolo.
Gli strumenti musicali popolari rivelano l’urlo della rinascita della coscienza popolare.
Questo è in breve A CUOR SINCERO, e con cuore sincero non si possono spendere molte
parole sul teatro, ci si guarda, ci si ascolta, si danza, si parla, si vive.
 

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Foto - Cuisine et Dépendances   Cuisine et Dépendances
''Il controllo di questa serata ci é completamente sfuggito !!!''

dal 13 Marzo
al 18 Marzo

Ore 21:00
Ingresso € 12

Spettacolo in lingua francese

Di Agnès Jaoui e Jean Pierre Bacri (1991)
Con : Michael Fenoud (Jacques), Diane Langeais (Charlotte), Ludovic Plee (Georges), Davide Trebbi ( Fred), e Emilie Vandecandelaere (Martine). E alla Regia: Salomon Mouawad

Jacques e Martine sono una coppia della piccola borghesia, apparentemente senza problemi. Una sera decidono di invitare a cena due vecchi amici che non vedono da dieci anni: uno scrittore e giornalista di successo e sua moglie, completamente presa dalla carriera. Tra gli invitati sono presenti anche Georges, un amico che ospitano a casa, e Fred, il fratello di Martine con la sua ragazza Marylin.
Durante la serata, la tensione sale catalizzata dalla presenza del famoso giornalista il cui successo nella vita scatena ammirazione, invidia, gelosia ed aggressività.
L’intera vicenda si svolge all’interno della cucina, il luogo dove tutti vengono man mano a confidarsi, lamentarsi, spiegarsi.
Oltre incomunicabilitá, superficialità, e luoghi comuni é soprattutto l’incapacitá d’amare o di farsi amare che si intuisce durante l’intero spettacolo… eppure provoca ilarità nello spettatore.
 

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Foto - 10   10
dieci storie diversamente normali

dal 1 Marzo
al 11 Marzo

Ore 21:00
Ingresso gratuito

Alessandro Sena, dopo il successo dello spettacolo CASTA DIVA – OMAGGIO A MARIA CALLAS, firma la regia di DIECI,
performance teatrale che, con il Patrocinio di Roma Capitale, in prima nazionale debutterà al teatro dei Contrari dal 1° all’ 11 marzo 2012.
  
Dieci, come i testi scelti a rappresentare differenze, culture e stati d’animo,  tratti dalla penna di illustri scrittori e da giovani e promettenti autori. Dieci opere leggere e impegnate che rappresentano la diversità quale elemento di confronto e di arricchimento personale, in un momento storico dove la globalizzazione, nei suoi effetti negativi, rende tutto piatto e incolore. Una performance teatrale suggestiva, di taglio contemporaneo, nella quale l’alchimia danza/teatro/musica, conduce lo spettatore in un viaggio sulla diversità, contemplata in questa occasione, come elemento di ricchezza.
 

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Foto - La catena del danno   La catena del danno
Un tributo al mistero femminile. Una provocazione allillusione del senso comune di possesso.

dal 14 Febbraio
al 26 Febbraio

Ore 21:00
Ingresso € 12

Una madre, data in adozione poco dopo la sua nascita, abbandona a sua volta sua figlia nel tentativo di trovare una forma “altra” di amore, libera da sovrastrutture imposte dall’esterno, autentica, viscerale. Nella ricerca dell’affermazione della propria posizione di donna nel mondo, al di là del solo essere madre, si sottrae a sua figlia  per poter essere con lei una cosa sola. Ripropone così l’unica forma d’amore a lei conosciuta: il legame indissolubile dell’assenza, la catena del danno. In questo suo insoluto cammino verso la “verità”, si innestano il non-rapporto con la madre adottiva e il giudizio degli altri, incarnato dalla vecchia amica ormai incapace di comprendere le sue scelte estreme, che irrompono a turbare il flusso del suo delirio emotivo.


Atto unico di Pierluigi Marotta
Regia di Flaminia Graziadei

Interpreti: Giulia Bornacin – Salima Balzerani - Sara De Marchi
Video Istallazioni: Flaminia Graziadei
Art director: Grazia Colombini
Musiche: Michalis Koumbios
Les Tambours du Bronx
 

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